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								TU, LASCIALA ANDARE 
								  
								  
								
								
								A primo colpo non si riusciva mai a trovarlo. Ogni volta 
								bisognava fare il giro: la cucina, le stanze 
								(una sopra all’altra in quella specie di 
								colombaia che era la casa dei nonni) e la 
								lavanderia, la stalla, il fondaco per risalire 
								poi in quella soffitta grande, polverosa, 
								ingombra di oggetti e di ricordi. Alla fine ci 
								si affacciava alle finestre per scrutare dentro 
								la vigna  e l’orto sempre con il cuore in gola 
								per la paura di trovarlo stramazzato. Due 
								infarti a distanza di due anni, non erano mica 
								uno scherzo! tanto più che dopo la morte della 
								moglie aveva voluto a tutti costi continuare a 
								vivere nella vecchia casa. Da solo. 
								
								
								Comunque, spesso e volentieri, lo trovavano proprio lì, tra 
								le sue piante. Magari curvo sulle aiuole dei 
								fagioli o, addirittura, avvinghiato su una 
								scaletta a una pianta di olivo per la potatura. 
								I rimproveri di figli e nipoti non erano 
								mancati. Scomposti e disperati come quelli delle 
								numerose figlie o pacati ma imperiosi da parte 
								di zio Michele. Recriminazioni e minacce si 
								spegnevano però come onde sul bagnasciuga contro 
								il sorriso celeste di quegli occhi larghi e 
								sognanti che avevano sempre reso nonno Guido un 
								uomo affascinante. Da giovane e da vecchio. Era 
								con quegli occhi che, ai suoi tempi, aveva 
								stregato nonna Rosa. 
								
								
								La figlia del fattore alta e snella con una testolina nera 
								sopra un corpo sottile ma vibrante come un 
								albero di pesco a primavera e, per di più, come 
								figlia unica di un fattore accorto e un tantino 
								spregiudicato, dotata del ricco patrimonio di 
								terre e di case accumulate sulla rovina dei 
								baroni Striminio. Gli antichi padroni di 
								Girolamo, quelli che sui tavoli di gioco e nei 
								bordelli avevano buttato al vento tra debiti e 
								ipoteche una fortuna. Che quel giovanotto svelto 
								e spensierato ma povero in canna, nonostante il 
								suo diploma di perito agrario conquistato  più 
								per l’amore alla terra che per disponibilità 
								famigliari, fosse riuscito (e senza troppo 
								impegno e fatica) ad entrare come genero nel 
								villa di padron Girolamo rodeva a più di un 
								possidente del paese. E dire che qualcuno aveva 
								già cominciato a intavolare trattative di 
								matrimonio col fattore per allargare le 
								proprietà e rafforzare le famiglie! Ma con Rosa 
								non c’era stato niente da fare. Capricciosa come 
								figlia unica e determinata come il padre quel 
								matrimonio se l’era conquistato facendo 
								capitolare ogni resistenza. Alla fine, aveva 
								pensato  il vecchio, avere un agrimensore in 
								casa poteva essere una sicurezza per il 
								patrimonio. Si era, però , dovuto presto 
								accorgere  che come aiuto per il mantenimento e 
								l’accrescimento delle proprietà quel genero 
								proprio non riusciva a funzionare. Stava sempre 
								tra filari e colline a osservare, studiare e 
								quasi accarezzare le piante e di affari  non ne 
								voleva sapere. E quando finiva di stare sulla 
								terra, sempre in casa intorno ai figli e alla 
								moglie che intanto gli scodellava ogni anno un 
								marmocchio. Tutti belli e dritti, come la madre, 
								in verità, ma solo uno, Micheluccio,  con lo 
								sguardo di cielo del padre. 
								
								Anche questa volta Momo, era questo il diminutivo adottato 
								subito per alleggerire  il peso di quel grosso 
								nome  di Girolamo finalmente perpetuato 
								nel primo dei pronipoti  del fattore, scovò 
								nonno Guido nella vigna. Non lo vide subito 
								perchè stava infrattato tra i filari. Fu il 
								fruscìo di un viticchio a svelargli la sua 
								presenza. Il nonno con la mano tesa e lieve 
								carezzava un tralcio di vite osservandone da 
								vicino le venature e borbottava sottovoce. Cosa 
								dicesse non si capiva  ma il suono carezzevole 
								della voce comunicava una dolcezza senza fine. 
								Era proprio un vecchio strano! aperto con quegli 
								occhi di mare su tutto il bello del mondo e, 
								nello stesso tempo, chiuso nei suoi pensieri 
								come in una bolla iridescente. Momo comunque, 
								mentre lo guardava, sentiva allentarsi quella 
								morsa che dalla sera precedente lo stringeva al 
								collo.
								 Sì, aveva fatto bene a venire. Nessuno, 
								meglio di nonno Guido, era in grado di 
								ascoltarlo e, magari, dirgli una di quelle sue 
								rare parole capaci di passare come il miele su 
								ogni ferita. 
								
								
								Era rimasto immobile a guardare quella testa bianca curva in 
								atteggiamento d’amore contro la pianta ma un 
								refolo di vento gli passò a un tratto tra i 
								capelli e fu il suo gesto di riavvio a rivelare 
								la sua presenza. 
								
								
								Il vecchio si girò sconfinando di sorrisi nel brillìo degli 
								occhi prima ancora che nell’aprirsi delle labbra 
								
								
								“Oh Momo, chi si rivede! Ma non eri a Torino per le lezioni? 
								
								
								“Ciao, nonno. Ti dispiace che sono venuto a trovarti?” 
								
								
								“Ma che dici? Lo sai che mi fa piacere vederti. Sempre”. 
								
								
								“Vieni andiamo a bere qualcosa di fresco”. 
								
								
								Mentre lo seguiva tra i filari non poteva fare a meno di 
								pensare con malinconico rammarico a quanto fosse 
								diversa la sua vita sentimentale, sempre in 
								rollìo tra alti e bassi nella sua storia con 
								Sara, da quella del nonno. Un amore tranquillo e 
								lungo come una giornata assolata di maggio 
								trascorso senza affanni tra scherzi e carezze 
								accanto alla nonna finchè lei non si era spenta 
								in un soffio con la mano nelle sue mani. Che 
								consiglio avrebbe potuto dargli quell’uomo senza 
								drammi  per sorreggere le sue incertezze, 
								raddrizzare le sue storture e riavviare 
								quell’amore strano che si spegneva e riaccendeva 
								continuamente come la luce di una sera di 
								temporale! ora poi che Sara s’era intestardita a 
								seguire quella compagnia di teatranti di 
								provincia in una avventurosa tournèe in mille 
								paesotti sperduti. Che Sara fosse un animale da 
								teatro lo capiva pure lui anche se si guardava 
								bene dal dirglielo. Con quei suoi occhi profondi 
								e quella voce capace di trasformarsi come le 
								onde del mare, dai sussurri più lievi alle grida 
								laceranti, era in grado di tenere la scena anche 
								da sola. Ma abbandonare il suo lavoro sicuro di 
								bibliotecaria per mettersi così alla ventura su 
								quel miserabile carro di Tespi che stava per 
								partire gli sembrava proprio una follia 
								pericolosa. E solo perché quel critico famoso, 
								capitato per caso alla recita annuale della 
								filodrammatica, s’era lasciato scappare che Sara 
								era una  promessa sicura del teatro! Andare poi 
								in giro, per un anno e forse più, tra squallidi 
								alberghi di paese magari a prendere fischi da 
								pubblici ignoranti, incapaci di comprendere la 
								novità dei testi e la bravura degli attori! 
								Senza contare che se a lui  avesse voluto 
								veramente bene non avrebbe buttato così al vento 
								il suo e il loro avvenire. A tutti quei suoi 
								discorsi fatti alternativamente con rabbia o 
								voce suadente e pacata e recriminazioni 
								addolorate, Sara aveva sempre opposto il sorriso 
								del suo amore 
								
								
								“Momo, ma come ti viene in mente che io mi dimentichi di te? 
								Il nostro è un amore vero. Può resistere a tutte 
								le lontananze. Però se tu non mi lasci andare ci 
								sarà sempre un’ombra nella nostra vita”. 
								
								
								Alle sue obiezioni di difficoltà anche per il futuro per come 
								riuscire a essere insieme moglie e madre e 
								attrice di teatro, Sara aveva sempre opposto con 
								inalterabile pazienza la sua capacità di 
								soppesare bene impegni e opportunità, nonché la 
								rete solida di nonne e zie che l’avrebbero 
								supportata nei periodi di assenze. Soltanto 
								nell’ultimo incontro, a pochi giorni della 
								partenza, alle sue rinnovate e un poco infantili 
								recriminazioni si era lasciata scappare un 
								infastidito: “Se la pensi così, mi dispiace ma 
								proprio non si può andare avanti”. 
								
								
								Non ci voleva altro per inalberare il suo orgoglio ferito. 
								
								
								Con un gelido “Hai proprio ragione. Buon viaggio!”, l’aveva 
								lasciata di stucco sulla panchina e se n’era 
								andato di botto. Per evitare che lei lo 
								raggiungesse si era rifugiato a cellulare 
								spento  per un pomeriggio intero nella casa al 
								mare. Da solo. E ci aveva anche dormito. Al 
								mattino, quando il primo raggio di sole che 
								filtrava tra le persiane l’aveva svegliato, 
								aveva pensato di andare dal nonno. Per fare cosa 
								non lo sapeva neppure lui ma era sempre lì, da 
								quel vecchio mite e un poco misterioso, che era 
								corso fin da bambino quando le cose non 
								quadravano. In cerca di sicurezza e anche di 
								chiarezza. E anche ora che stavano sulla 
								panchina della veranda a sorseggiare la menta 
								fresca all’ombra del gelsomino quella sicurezza 
								di un affetto incontestabile  lui la sentiva 
								aleggiare come una farfalla lenta e soave 
								intorno. Ma di chiarezza no, non si vedeva 
								l’ombra. Nè su ciò che aveva fatto né sul da 
								fare. Cosa avrebbe fatto lui della sua vita dopo 
								la laurea ma anche ora. Medico senza frontiere 
								come aveva sempre sognato parlandone anche con 
								Sara? E lei in questo l’aveva sempre 
								incoraggiato con convinzione gioiosa. E con lei 
								come sarebbe andata? Come avrebbero gestito la 
								loro vita sbattuti così ai due angoli opposti 
								del mondo? Dove si soffriva e dove si sognava? 
								Ce l’avrebbero fatta a conservare quella 
								preziosa comunione di pensieri e di emozioni che 
								si erano scoperti a condividere fino 
								dall’adolescenza? 
								
								
								Il nonno apparentemente occupato a eliminare i gettiti secchi 
								del gelsomino lo guardava di sottecchi, senza 
								fare domande. Era questa la  specialità di nonno 
								Guido. Aspettare. Aspettare che le porte si 
								aprissero, che le bocche si schiudessero, che le 
								domande venissero. Il silenzio però questa 
								volta  tra loro continuava a stendersi opaco e 
								resistente. Pesante. Una dura coperta 
								infeltrita. Questa scura cortina Momo la 
								percepiva nettamente mentre a testa bassa si 
								rammaricava di essere venuto lì. Il nonno 
								intanto continuava a ticchettare con le cesoie. 
								A  un certo momento il suono si interruppe ed 
								egli alzando lo sguardo si accorse che il 
								vecchio si appoggiava con la mano alla sedia. Il 
								viso sbiancato, la figura snella piegata ad arco 
								sopra la spalliera. 
								
								
								“Nonno che cos’hai? Ti senti male?” 
								
								
								“Niente, Momo, è solo uno sbalzo di pressione. Va’ in camera 
								mia e nel primo cassetto della scrivania prendi 
								una scatola rossa e blu. Sono le pasticche che 
								mi rimettono su”. 
								
								
								Di volata, senza neppure soffermarsi a farlo sedere arrivò 
								nella camera dei nonni, aprì la scrivania, cercò 
								e trovò la scatola. Prima che andasse via lo 
								colpì come un raggio improvviso che abbaglia, un 
								ritratto di donna mai vista poggiato sopra la 
								scrivania. Ma non c’era tempo di farsi domande. 
								Quando tornò sulla veranda il vecchio aveva già 
								ripreso il colorito e sorrideva pacato. 
								
								
								“Hai avuto paura eh? Ma il medico mi ha detto che con questa 
								pressione bassa si può campare fino a cento 
								anni”. 
								
								
								Ormai le nuvole plumbee della paura si erano dissolte e si 
								era anche placato quel rovello di pensieri che 
								l’aveva  tormentato poco prima. Le parole ora 
								cominciavano a rifiorire tra loro come le nuove, 
								antiche foglie di tutte le primavere. Con le 
								parole le domande, gli scherzi, le risate 
								complici. Fu per questa lieta aria di amicizia 
								che Momo si sentì quasi in dovere di  fare al 
								nonno una domanda: 
								
								 “Nonno, 
								ho visto un ritratto di donna. Chi è? Mica una 
								tua conquista senile, vecchio lupo della 
								prateria?”. 
								
								
								Lo sguardo del vecchio si fece azzurro chiaro  come un’onda 
								battuta dal sole. Senza rispondere si alzò e 
								sparì verso la camera. Di lì a poco tornò col 
								ritratto tra le mani  e si sedette di fronte a 
								Momo. 
								
								
								“Forse è ora che ti racconti una storia. Lontana. Antica”. 
								
								
								Così col lieve profumo di altri tempi si sgranò di fronte al 
								giovane un pezzo di vita. La donna era la 
								baronessina Elisa che aveva abitata la villa 
								sulla collina. Elisa e il nonno si erano 
								conosciuti sui banchi di scuola e si erano 
								innamorati. Un amore difficile, contrastato. 
								Figurarsi! il figlio del contadino e l’erede dei 
								baroni. Un’erede senza eredità, a dire la verità 
								perché mentre Elisa diventava grande, sottile e 
								bella come un giunco nello splendore dei capelli 
								ramati e nelle fonde inquietudini degli occhi 
								color di palude il padre aveva creduto bene di 
								lasciare sul tavolo da gioco quasi tutte le 
								proprietà. Ma il sangue non è acqua e l’antica 
								famiglia della madre dopo avere imposto una 
								separazione da quel debosciato aveva richiamato 
								a sé figlia e nipote. Elisa allora frequentava 
								già l’università. Con la  nonchalance della sua 
								origine e  con la facilità della sua 
								intelligenza acuta. A lui era rimasta ancora 
								legata anche se tra gli alti e bassi di una 
								relazione quasi clandestina e increspata dai 
								frequenti corteggiamenti che la circuivano
								all’interno del suo ceto. Ma quel ragazzo 
								serio e sognatore non cessava di attirare la 
								baronessina  nella sua sfera di onestà e verità 
								esistenziale anche se spesso la tentazione di 
								sfuggirgli era forte.  
								
								
								Una sera che si erano dati appuntamento vicino al vecchio 
								mulino sopra il fiume Elisa arrivò come al 
								solito in ritardo ma, contrariamente al solito, 
								invece di buttargli le braccia  al collo ridendo 
								e scherzando sulla regolare puntualità di Guido, 
								si avvicinò lentamente con occhi cupi e 
								tempestosi e, quando gli fu vicino, gli sparò 
								sul viso 
								
								
								“Questa notte dobbiamo scappare” 
								
								
								“Scappare? Dove? Perché?” 
								
								
								Il dove non si sapeva ma il perché fu presto detto. Gli zii 
								materni erano venuti a prelevare sorella e 
								nipote per portarsele in città. Loro certamente 
								non avrebbero minimamente permesso a Elisa di 
								frequentare chi non era del loro ceto. Il piano 
								della ragazza srotolato con veloce sicurezza di 
								fronte alle scarne obiezioni di Guido era quello 
								di nascondersi per un po’ da qualche parte,poi 
								sposarsi, erano maggiorenni, no?  E cominciare a 
								vivere insieme mantenendosi con quello che 
								sarebbe capitato come lavoro. Lontano da 
								tutte e due le famiglie. Ma insieme. Altrimenti 
								lei sarebbe andata via da sola  
								
								
								“E tu , nonno  cosa hai fatto?” 
								
								
								Il vecchio prima di rispondere si passò più volte la mano 
								sulla fronte 
								
								
								 “Io l’ho lasciata andare. Per paura. E non per me ma per 
								lei. Come potevo toglierle tutto quello che era 
								stato il suo mondo? E lei se ne è andata e mi ha 
								dimenticato. Dopo un po’ si è sposata. Un 
								signorone che l’ha portata a vivere in un 
								palazzo ma è morta giovane, al secondo parto. 
								Io, in un certo senso ero già morto prima. La 
								mia vita, è vero, l’ho continuata. Ho sposato 
								tua nonna e le ho voluto bene. Molto. Ma ero 
								come un ramo seccato che prova ogni primavera a 
								rifiorire e non ce la fa mai a rinverdire 
								completamente  dalle punte all’attacco del 
								tronco”. 
								
								
								Momo taceva pensando a Sara. Il vecchio, come se avesse letto 
								nei suoi pensieri, aggiunse: ”Non è stata una 
								scelta generosa è stata solo  una 
								mancanza di amore. Non ho avuto il coraggio di 
								amare e non capivo che l’amore è una freccia 
								invincibile. Può superare in un attimo ogni 
								distanza di luogo e di società”. 
								
								
								Allora, come liberato da un incubo, Momo gli rovesciò addosso 
								tutte le sue paure e le sue ansie per la scelta 
								di Sara. Il vecchio lo ascoltava attento e 
								assorto in silenzio. Fu solo mentre  scendevano 
								i primi scalini dalla veranda in giardino che 
								aprì la bocca per dirgli: 
								
								
								“Non sbagliare come ho fatto io. Tu, invece, lasciala 
								andare”.  |